sabato, febbraio 24, 2007

Andy Warhol


Parliamo del geniale Andy Warhol, l’uomo che inventò l’arte “serial” dei giorni d’oggi, scomparso a New York esattamente vent’anni fa dopo un banalissimo intervento chirurgico alla cistifellea. Padre della Pop art, Warhol ha senza dubbio dato l’impronta agli ultimi decenni del Ventesimo secolo, come dimostrano le quotazioni delle sue opere altissime ancor oggi. Nato nel 1928 a Pittsburgh, da una famiglia romena emigrata, Warhol inizia la carriera artistica solo intorno al ‘60. Dal 1945 al 1949 studia arte presso il “Carnegie institute of technology” e nel 1950 comincia a lavorare come grafico pubblicitario a New York. È soltanto nel 1960 che Warhol intraprende la sua carriera artistica, che in brevissimo tempo lo porterà ad essere la personalità di spicco della Pop art americana che interpreta i temi più tipici della cultura di massa americana, a volte ironizzandoli, a volte amplificando i suoi innegabili effetti di suggestione. Sempre nel ‘60, Warhol comincia la sua caratteristica produzione di immagini trattate con una nuova tecnica: la serigrafia. L’artista fotografa un soggetto, lo sviluppa in diapositive, proietta la diapositiva su una tela bianca e copia l’immagine prima a matita e in seguito con colori acrilici. Le sue opere più famose sono diventate delle icone: Marilyn Monroe, Mao Zedong, Che Guevara e tante altre. La ripetizione era il suo metodo di successo: su grosse tele riproduceva moltissime volte la stessa immagine alterandone i colori (prevalentemente vivaci e forti). Prendendo immagini pubblicitarie di grandi marchi commerciali (famose le sue bottiglie di Coca Cola, le lattine di zuppa Campbell’s e i detersivi Brillo) o immagini d’impatto come incidenti stradali o sedie elettriche, riusciva a mettere a disagio il visitatore proprio per la ripetizione dell’immagine su vasta scala. La sua arte, che portava gli scaffali di un supermercato all’interno di un museo o di una mostra d’arte, era una provocazione nemmeno troppo velata che doveva essere consumata come un qualsiasi altro prodotto commerciale. Warhol ha spesso ribadito che i prodotti di massa rappresentano la democrazia sociale e come tali devono essere riconosciuti: anche il più povero può bere la stessa Coca Cola che beve il presidente degli Stati Uniti o Elizabeth Taylor. Nell’universo “warholiano” così legato alla cultura di massa, non poteva quindi mancare il cinema e cioè Hollywood e le sue star. La mitologia, che i mass media generano, trova nella star cinematografica la sua incarnazione più suggestiva, soprattutto in anni in cui la tv non aveva ancora imposto i propri divi. Tutti i ritratti vengono eseguiti tra il 1962 e il 1966: l’artista stampa le serigrafie dei ritratti ufficiali degli attori (cioè le foto già ritoccate dai fotografi delle agenzie per abbellire i personaggi), ripetendole in serie su tele di grandi dimensioni. Raramente interviene con il colore; più spesso, l’immagine viene lasciata in bianco e nero, mentre cambia il colore dello sfondo. Ecco allora i divi di Hollywood: Warren Beatty, Nathalie Wood, Marlon Brando, Elvis Presley, ma soprattutto Marilyn Monroe: il volto dell’attrice viene trattato con diverse combinazioni di colori, ed è, anzi, solo il colore ad identificare i ritratti. Marilyn Monroe è trattata come un’icona predisposta all’adorazione feticistica, esattamente come i ruoli che le riservava il cinema. Il mito Marilyn è diventato tale dopo il suo suicidio, ed è stata, forse, la frattura tra immagine pubblica e vita privata a spingere l’attrice verso la morte, estremo bisogno di autenticità in un universo di bugie, come doveva essere a quel tempo Hollywood. Warhol realizza queste opere pochi giorni dopo il suicidio dell’attrice, sull’onda della grande emozione che si andava diffondendo nel mondo. La Marilyn di Warhol è l’immagine di una donna morta perché non riusciva più ad identificarsi nello stereotipo di se stessa. In queste opere è impossibile non cogliere la denuncia e la protesta, espressa con il semplice replicare l’espressione radiosa e un po’ assente dell’attrice. I barattoli di minestra Campbell’s sono, accanto ai ritratti di Marilyn Monroe, i tratti distintivi di Andy Warhol. Anzi, spesso sono stati assunti a simbolo della Pop art a stelle e strisce. La loro fama ha travalicato i ristretti confini dell’arte: è stato addirittura detto che le Campbell’s soup cans non sono più solo minestra in scatola, ma Pop art. Con queste opere l’artista sottolinea lo stretto legame che dovrebbe unire l’arte alla vita quotidiana. In questo modo vi è l’ennesima sdrammatizzazione del grande gesto creatore romanticamente attribuito all’artista. Ma Andy Warhol non è solo Pop art: il suo genio lo ha portato a sperimentare anche altre forme di comunicazione, come ad esempio il cinema e la musica: ha prodotto alcuni lungometraggi e film, ha supportato alcuni gruppi musicali - in primis i Velvet Underground con Lou Reed, la cui famosissima copertina dell’album d’esordio è stata disegnata dallo stesso Warhol -, ha scritto libri e biografie. Il pensiero commerciale di Warhol spaziava insomma in ogni campo. L’artista, che si è sempre dichiarato pubblicamente omosessuale (fatto moralmente non accettato nell’America negli anni ‘60) è stato più volte censurato per i contenuti dei suoi lungometraggi: “My Hustler”, “Blow Job” (telecamera fissa per 35 minuti sul volto di un uomo che riceve una fellatio) e “Lonesome Cowboys” sono alcuni esempi di film che ritraggono la cultura gay newyorkese del tempo, censurati e distribuiti solo con il passaparola. Altri lavori, certamente d’avanguardia, mostrano ad esempio 8 ore di sonno di un uomo (“Sleep”): in soli cinque anni Warhol produsse oltre 60 film, cortometraggi e lungometraggi di sperimentazione artistica attraverso la telecamera. Alcuni di questi film furono trasmessi al pubblico dopo trent’anni dalla data di pubblicazione dei lungometraggi, soprattutto in occasione di mostre ed antologie del pittore organizzate in molti musei del mondo. Il 3 giugno 1968, un’artista frequentatrice della “Factory” (uno spazio fondato dall’artista in cui giovani artisti newyorkesi potevano trovare uno spazio collettivo per creare), sparò a Warhol e al suo compagno di allora, Mario Amaya. Entrambi sopravvissero all’accaduto, anche se Warhol riportò gravi ferite e si salvò in extremis. Valerie Solanas dichiarò di aver sparato perché Warhol aveva troppo controllo sulla sua vita: successivamente scrisse anche una sceneggiatura dell’accaduto proponendola addirittura allo stesso Warhol, che rifiutò categoricamente.